Il teatro mi ha cambiato molto più della scuola, molto più della famiglia. Mi ha fatto diventare quello che sono.
Domani Marco Paolini, il più conosciuto, forse il più amato tra i creatori del teatro di narrazione, incontrerà il pubblico nella Sala Montanelli del «Corriere», in via Solferino, affiancato da Gian Antonio Stella. E da venerdì 16 parte una nuova iniziativa editoriale del «Corriere della Sera» di cui Paolini è protagonista con i lavori più famosi di questi ultimi vent’anni, tradotti in libri e in dvd.
Per spiegare il suo teatro, che è politico ma non è satira alla Dario Fo, è stato coniato il termine «orazione civile».
«Così era stato definito "Vajont", una storia italiana datata ’63. Negli Album, invece, un po’ come fossero quelli delle figurine della nostra infanzia, ho raccontato, per immagini, canzoni, fuoriscena, anche storie più quotidiane, più libere, quasi private, che attraversano, tra crisi e tragedie più grandi, gli anni Settanta e Ottanta. Non c’è un continuum narrativo, sono legate tra loro da un filo di memoria. Per me è un modo, questo, di mettere via quello che non serve più, perché non si sa mai».
Lei è uno che non ama dimenticare...
«Nella vita di tutti i giorni posso anche essere distratto. Un po’ come Nicola, il protagonista degli Album. Ma non riesco a dimenticare certi fatti, certi italiani... e anche certi luoghi, dall’oratorio di Don Bernardo a piazza della Loggia a Brescia. Per vivere il presente, per scegliere il futuro, credo sia necessario ricordare. E poi, esattamente come si potrebbe dire per una persona, un paese che dimentica è un paese triste. Forse lo stiamo diventando».
Così come è meglio partire dal raccontare una realtà di provincia per arrivare ai casi nazionali?
«È tutto collegato, basta seguire pazientemente i fili. E poi, se lavori sul particolare, comunichi con tutti — tu che sei veneto ti fai capire da uno di Potenza — non sei generico, sei più credibile. Forse saper vedere quello che ti succede intorno è più difficile che non i fatti lontani, vederlo con i tuoi occhi, intendo, non con quelli dei telegiornali, delle tv che non sanno costruire memoria ma solo accumulare attualità lasciandosi dei vuoti dietro».
Televisione, radio, dvd, libri, musica: lei ha utilizzato tanti mezzi di comunicazione, restando sempre Marco Paolini...
«E’ come parlare lingue diverse (non straniere, però, io quelle non le parlo) cercando di dire le stesse cose, anzi si impara a scegliere quello che è più importante da trasmettere alla gente. Io sono un attore, no? Diciamo anche che così, con l’aiuto di amici autori che conoscevano bene il mezzo di volta in volta, mi sono impegnato a mettere via "bene" il lavoro di dieci anni».
Per fare che cosa?
«Per guardare avanti. So che devo muovermi, cercare la freschezza intorno a me. E comunque, se ho una cosa nuova in mente, prima la faccio, poi ne parlo».
Ha iniziato facendo l’attore in modo diverso da come il grande pubblico la conosce. Che posto ha il teatro nella sua vita?
«Credo che il teatro mi abbia cambiato, molto più della scuola. Molto più della famiglia. Molto più della musica che ho ascoltato, delle idee che ho sentito circolare, dei libri che ho letto. Credo che il teatro mi abbia fatto diventare quello che sono. Per anni ho fatto teatro senza dire una parola. Poi ho cominciato a parlare e non ho più smesso...».
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